La sindrome Erasmus

AE and its partners! Today read “La sindrome Erasmus” from Angry Italian.

AUTHOR: Angele Scibilia

Language: Italian

Mi dovrete perdonare, dopo un po’ divento monotona. Mi accorgo di essere veramente noiosa quando a ogni sacrosanta discussione sulla qualsiasi mi verrebbe da dire “…e in Cina funzionava così” o “a Shanghai le cose venivano fatte in questo modo”. Infatti, quest’anno ho avuto l’incredibile fortuna, regalata a mio parere un po’ dal destino, di passare cinque mesi a Shanghai.

L’occasione è stata unica e incredibile: un’introduzione al favoloso e complesso mondo asiatico nella sua più spettacolare e futuristica versione. Non potrei mai parlare abbastanza bene di quello che ho vissuto e della città in sé, nella quale spero vivamente di ritornare. Mi piange il cuore quando penso a quanto sia selettiva (in negativo) la stampa occidentale nei confronti della Cina e del mondo asiatico in generale.

Noi sappiamo e vogliamo sapere della Cina soltanto quegli aspetti che la rendono tanto diversa dal nostro mondo e più facile da condannare, senza considerare che la realtà è sempre molto più complessa di quanto non pensiamo. L’abilità che ho maggiormente sviluppato in quei mesi a Shanghai è quella di non sentire sempre la necessità di giudicare o di paragonare quello che vedevo a mondi che non avevano niente a che vedere con la Cina. Potrei scrivere papiri su quanto andare in Asia (seppure un’Asia molto internazionale e assolutamente confortevole) mi abbia aperto gli occhi sul modo di pensare di noi occidentali, sempre pericolosamente convinti che il nostro modo di vivere e di pensare sia il migliore in assoluto. Ma divagherei troppo dal messaggio che vorrei trasmettere oggi.

Internet è pieno di articoli “10 motivi per cui andare all’estero rovinerà la tua vita” o “Come studiare all’estero ti cambierà per sempre”. E noi tutti studenti erasmus, exchange, stagisti internazionali o “io vado a fare la magistrale all’estero” ci crogioliamo nel leggerli e nel riconoscerci in quel club esclusivo. Ma cos’è che ci rende così fieri delle nostre avventure forestiere e che, a volte, ci porta ad odiare il nostro paese? Perché a un certo punto l’Italia ci sta stretta?

Fino a due anni fa avrei sicuramente detto che la mia vita sarebbe stata nel mio paese, che avrei fatto un’esperienza all’estero e poi sarei tornata per prestare servizio nella madre patria. Adesso penso che un futuro in Italia per me sarà decisamente improbabile. E non perché in Italia non ci sono opportunità, siamo costretti a lasciare casa per avere un futuro decente, e via dicendo. È innegabile che a casa qualche problemino ci sia, ma molte volte i “problemi” sono ingigantiti dalla percezione che noi ne abbiamo. Non ho in testa nessuna drammatica visione del futuro, semplicemente la mia “casa” si è allargata, e anche 10.000 chilometri di distanza sembrano alla portata di mano.
Siamo la generazione che emigra perché vuole emigrare, non perché ne ha bisogno. O per meglio dire, il bisogno c’è. Per molti è un imperativo che deriva da una necessità psichica, anziché fisica.
E quando si ritorna a casa ci si rende conto di quanto diversi siamo diventati in pochi mesi passati via. In alcuni casi questa constatazione è addirittura una sofferenza, per altri (e mi inserisco tra questi casi) il ritorno non è altro che un momento di sospensione tra “una vita e la prossima”.

A mio avviso, ci sono due motivi che spingono molti di noi ad avere questi pensieri: il primo è un po’ superficiale, il secondo decisamente più profondo.
Il primo motivo è rappresentato dal fatto che l’idea che “all’estero è sempre meglio” ci viene inculcata sin da giovanissimi. Tutto il mondo che ci circonda, le scuole, la stampa, l’opinione pubblica, ci dice che qualsiasi cosa al di fuori dell’Italia funzioni meglio. Un’assurda falsità. Un vero e proprio stereotipo di cui ci si rende conto quando si mette piede fuori. Ci ripetiamo questo mantra in modo acritico. Non siamo neanche un assoluto esempio per l’umanità, ma certe volte dovremmo imparare a lavorare meglio con le risorse che abbiamo.
Il secondo motivo più profondo è la crescita. Andare all’estero ti fa crescere, che tu voglia o no. Ti fa crescere perché innanzitutto ti mette in una situazione di difficoltà , in una situazione scomoda. Non importa che tu sia un viaggiatore esperto o che tu non sia mai uscito di casa, all’inizio le difficoltà ti cadranno addosso come se piovessero.
Ti fa crescere poi, perché ti costringe fisicamente a cambiare il tuo punto di vista. Cominci a vedere le cose come le vedono gli altri, a mettere in discussione ogni cosa. È un esercizio intellettuale e psichico che ci porta a conoscere meglio noi stessi e, in modo ancora più fondamentale, a capire come vogliamo diventare. Sarebbe importante sottolineare, ora come ora ma un po’ sempre, il fatto che la cultura non è qualcosa di statico e fisso, ma qualcosa in continua evoluzione. La cultura cresce e si alimenta se a contatto con altre culture diverse. Questo è esattamente quello che succede quando siamo immersi in una cultura diversa dalla nostra, anche se di poco: cresciamo, ci alimentiamo della diversità. E la cosa crea dipendenza.

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