RAZZISTA O PERBENISTA: UN’ANALISI DELLA PERCEZIONE SOCIALE DELL’IMMIGRAZIONE
AUTHOR: IRENE MANOS
Language: Italian
Appare sempre più evidente quanto la società italiana attuale sembri disegnare la propria percezione dell’immigrato odierno in modo sempre più fisso e stereotipato. Col fine di capire da dove possano nascere certe immagini della percezione comune, in questo articolo sarà indagata soprattutto la comunicazione mediatica, ovvero il principale veicolo della cosiddetta informazione.
Osservando il discorso mediatico utilizzato per definire ruoli e caratteristiche degli immigrati, si ricava un quadro per lo più povero e semplicistico della cosiddetta immigrazione. Il primo elemento evidente sono le parole stesse utilizzate dai media italiani per definire gli immigrati. Su base statistica le parole più ricorrenti sono due: extracomunitari e clandestini.
“Immigrati extracomunitari” sottolinea l’esclusione dall’Unione Europea, percepita come prestigioso ingroup. “Clandestini”, invece, indica le persone senza regolare permesso di soggiorno, chiamate solo in Italia con questo particolare appellativo. In Inghilterra “illegal immigrants”, in Francia “sans papier”, in Spagna “los sin papeles”, in Germania “illegale Einwanderer” (violatori di confine), negli Stati Uniti “illegal aliens”.
Il linguaggio politico e mediatico quindi, confezionando ad arte due macrogruppi di immigrati di poco valore sociale e culturale, sembra massificare, modellare e appiattire l’immagine e la profonda diversità culturale di chi arriva, depauperando e appiattendo una ricchezza culturale molto diversificata e omologando fortemente la percezione sociale dell’immigrato.
Sembra esiste, inoltre, un clichè dell’immigrazione italiana trasmesso ogni giorno dai mezzi di comunicazione di massa. Quest’immagine ricorrente potrebbe essersi formata con la reiterazione di parole quali: invasione, esodo biblico, disperati che arrivano in cerca di cibo piuttosto che di salvezza. La descrizione è anche quella di culture in arrivo per lo più rigide e che non intendono integrarsi, rifiutando le culture locali costituendo dunque una minaccia delle identità locali.
Il possibile risultato è quello della stereotipizzazione massiccia e della stigmatizzazione sociale di alcuni codici culturali. L’immigrato diventerebbe, così, un essere marginale, inutile, incompetente, un peso per la società italiana. E, soprattutto se percepito come proveniente da gruppo con un basso status sociale, non un professionista, una persona con un profilo culturale, una preparazione, un pensiero strutturato. La percezione sembra essere quella dell’extracomunitario come un povero derelitto in cerca di cibo, e che il livellamento sociale conseguente, di cui è oggetto, non possa mai concepire l’esistenza di una classe media. Manca la rappresentazione della complessità delle culture di appartenenza del migrante.
La percezione della competenza di cui si è accennato è spesso legata allo status sociale. Se verso le persone di status sociale elevato (politici, star televisive, ecc.) si innescano meccanismi di invidia, verso i gruppi di basso status sociale si innesca allora un altro interessante fenomeno: il pregiudizio di tipo paternalistico. Il target del pregiudizio paternalistico è soprattutto il gruppo sociale percepito come incompetente, verso il quale non si sente grande competizione e verso il quale si rivolgono emozioni e giudizi positivi e negativi. Verso di loro sono espressi sentimenti e comportamenti di vicinanza personale e affettiva che però non scalfiscono la segregazione di ruolo. Tutto ciò porterebbe al comportamento tipico dei dominanti nei confronti di subordinati, percepiti come non minacciosi.
Queste immagini possono riguardare soprattutto migranti di basso status quali: poveri, africani, salariati del settore agricolo, latini, messicani, sud-americani e senza documenti.
Il calore paternalistico espresso verso i gruppi di immigrati può essere motivato da una scarsa valutazione della loro capacità competitiva e della loro competenza, che suscita sentimenti di vicinanza affettiva per la competizione inesistente e perché percepiti ben intenzionati e amichevoli.
La valutazione dei giudizi negativi e la quantità di stereotipi che possono essere diffusi dai media – socialmente accettati – fa riflettere su quanto scarsa sembra la considerazione degli immigrati sul suolo italiano. Il flusso migratorio in entrata sul nostro territorio è infatti giovane, ha circa tre decenni e la percezione della normalità della diversità sembra essere ancora lontana.
Anche le immagini mediatiche evocano di continuo questo paternalismo, con immagini martellanti di disperazione e aiuto umanitario. A questo si collega l’immaginario costruito sull’occidentale come di colui che dispenza conoscenza e aiuti. Il suo ruolo caritatevole può scatenere una vena di “buonismo dell’accoglienza”, e l’atteggiamento di chi rifiuta tale ruolo sembra essere quasi sempre quello opposto del “razzista”. Una frequente uscita da queste due opposizioni sembra non esserci.
L’immigrato in tutto ciò può rappresentare la catena debole, il bersagio simbolico della diversità e il fattore di dissidio verso cui riversare in modo più o meno consapevole la propria frustrazione, rabbia, incertezza personale o collettiva. Individui spesso indicati come bersaglio verso cui riversare pulsioni agressive di rivendicazione sociale, strumentalizzati da media e classe politica come mezzo di facile consenso sociale.
Come scrive Zygmunt Baumann, noto sociologo polacco, la nostra modernità liquida è caratterizzata dall’insicurezza quotidiana, paradossalmente molto diffusa proprio nei paesi sviluppati. La paura di perdere delle protezioni e delle posizioni forti vincola le persone alla paura della perdita. Ecco dunque la massiccia dose di notizie negative che caratterizzano i messaggi mediatici quotidiani: il terrorismo, la criminalità, l’esigenza delle comunità di recintarsi ed escludere il diverso, l’altro, obiettivo prediletto delle politiche della paura che ne fanno il miglior capro espiatorio.
Questa strumentalizzazione sembra evidente se si pensa alla descrizione del fenomeno migratorio solo come illegale, e dei migranti come dei clandestini, disperati, bisognosi. A questo si aggiungono quasi ogni giorno descrizioni di crimini associati a provenienze etniche ricorrenti, fino ad assimilare il fenomeno migratorio con la crescente criminalità.
La propaganda mediatica in Italia è martellante, e il pregiudizio/stereotipo può rialimentare a catena queste percezioni. Studi statistici hanno evidenziato come le testate nazionali abbiano aumentato gli articoli relativi alla migrazione, ma solo in termini di problematicità sociale e conflittualità.
Tutto ciò va numericamente valutato, poiché la scelta di dare o non dare una notizia e di come comunicarla fa parte di una decisione redazionale. Va detto che sembra esserci una consapevolezza da parte dei mezzi di comunicazione di massa su quando comunicare o meno un’informazione, contribuendo alla stessa verità o non esistenza della stessa. Notizie riguardo alle politiche di integrazione e all’utilità dell’immigrazione, all’integrazione socio culturale e a un’analisi storica del fenomeno sono pressoché silenti. Anche l’accento sulla passata e presente emigrazione italiana sarebbe un modo per creare empatia e vicinanza tra vicissitudini esistenziali simili, vicinanza che invece sembra essere annullata.
I media possono trasmettere dunque all’immaginario collettivo un’idea di realtà sovrarappresentata: dal 1998 al 2013, 628.457 migranti sono arrivati in Europa via mare in maniera irregolare, per un totale di circa 40mila persone all’anno (il dato si ottiene incrociando le cifre fornite dai ministeri degli Interni e da Frontex per Italia, Spagna, Grecia e Malta). Si tratta di numeri trascurabili se paragonati al milione e mezzo di immigrati che viene ammesso ogni anno nei paesi dell’Unione europea.
Per rendersi conto di come venga trasmessa questa immagine sovradimensionata, si vedano per esempio le seguenti parole del Tg2 del 10 maggio 2013:
“ Pronta ad accogliere ma incapace di gestire un flusso di persone in fuga dalla crisi economica e dalla dittatura comunista in Albania. 27mila arrivarono a marzo a Brindisi. Cinque mesi dopo in 20mila sbarcarono a Bari. Cifre da esodo biblico, il primo verso lo stivale. Era l’inizio di un fenomeno: l’immigrazione disperata e rischiosa. Da allora si è passati attraverso respingimenti, sanatorie, flussi, sbarchi definiti clandestini e un numero impressionante di morti. E mentre le cronache mostrano sbarchi su sbarchi, i dati spiegano il perché ”.
Il modo in cui è costruito il servizio è esemplificativo di come la tv italiana usi l’iconografia dello sbarco per descrivere l’immigrazione nel suo complesso, senza tenere conto dei dati sul fenomeno. Gli immigrati che entrano irregolarmente in Italia sono una netta minoranza: il 36% della presenza immigrata irregolare, secondo gli ultimi dati disponibili dal Viminale e riferiti al 2006. Al loro interno, è a sua volta minoritaria la quota di coloro che giungono via mare (il 13%). La stragrande maggioranza degli stranieri è entrata in Italia legalmente, cioè dagli aeroporti (63%).
Ulteriore ed ultimo aspetto è il discorso dell’integrazione e di quali requisiti debba possedere un immigrato per definirsi integrato. Uno dei requisiti sembra essere la “docilità”, la capacità di farsi ben volere, al di là di una oggettiva percezione dei suoi talenti. Malleabilità che si configura in netto contrasto con la percezione di una massa di immigrati rigidi e minacciosi in arrivo. Si veda per esempio il seguente stralcio tratto da “La Stampa” del 10 ottobre 2013, pag. 49:
“ Non sorprende che la Lega Nord, nel chiedere al sindaco di Torino che venisse consegnato a Rachid il Sigillo Civico, utilizzasse, per tramite dell’esponente Fabrizio Ricca, anche queste motivazioni legate al carattere: ‘Per me è un esempio di gentilezza e anche di capacità di farsi benvolere da chiunque l’abbia incontrato’ ”.
Altro requisito è il raggiungimento del successo socio-economico in contrapposizione allo stereotipo del migrante ghettizzato e di basso profilo sociale. Infine la scolarizzazione nel paese di arrivo e la sua assimilazione della cultura pop. Esemplificativa di questa è la frequente percezione di ambulanti senegalesi, in Sardegna, che cantano “Nanneddu meu” in spiaggia, spesso definiti come “integrati”.
Sembra non non venir preso in considerazione che l’assimilazione di alcune tracce della cultura locale e un certo conformismo possano realmente coincidere con una comprensione di alcuni contenuti culturali. A stupire è solo la presunta docilità del soggetto nell’abbandonare la stereotipata rigidità della sua cultura di provenienza.
Per concludere il presente articolo, un’acuta osservazione fatta dallo studioso Pascal Zachary che esemplifica il caso mediatico dell’Africa, rendendo così esplicita tutta la rigidità di immagini mediatiche e percezione collettiva:
“ Il mio obiettivo non è di affermare che in Africa non vi siano problemi o che gli occidentali non possano aiutare gli africani. Dico solo che questo focalizzarsi esclusivamente sulle patologie dell’Africa e la loro strumentalizzazione da parte dei media che io ho chiamato la pornografia del dolore, rappresenta solo una piccola parte della realtà africana e neppure quella più interessante o rappresentativa. Mi piacerebbe pensare che attraverso le foto, i documentari e gli articoli si potessero svelare le tante e differenti realtà africane. Un ventaglio di immagini che possano aiutarci a conoscere l’Africa e gli africani davvero più in profondità per permetterci di costruire basi più eque che mai e poi mai potremmo riuscire a costruire se continuiamo a vedere gli africani come mero oggetto di assistenza o compassione ”.
Fonti:
Bauman Z., Paura liquida, Laterza, Roma-Bari, 2006; Castel R., L’insicurezza sociale, Che significa essere protetti, Einaudi, Torino, 2004
Calvanese E., Media e immigrazione tra stereotipi e pregiudizi. La rappresentazione dello straniero nel racconto giornalistico, FrancoAngeli, Milano, 2011
Photo: ©GiulioPiscitelli/contrasto, da www.questionedimmagine.org.