La NEUROECONOMIA che influenza pensioni e scelte individuali
“La neuroeconomia che influenza il DEF e le scelte individuali “
Language: Italian
Author: DAVIDE LORENZETTO (leggi altri articoli dal S24H)
Una buona fetta della ricerca economica recente, conosciuta col nome di “neuroeconomia”, mette in correlazione gli errori che affliggono la razionalità degli agenti economici con soluzioni comportamentali apparentemente di buon senso e immediate, ma in realtà altamente controproducenti per il benessere sia individuale che sistemico.
Tali bias sono fonte non solo di errori nel comportamento microeconomico (le scelte individuali o della singola impresa), ma anche in quello macroeconomico, giustificando politiche economiche insidiose. Ravvisiamo alcune distorsioni percettive nelle politiche economiche delineate dalla Nota di aggiornamento al DEF presentata dal governo italiano.
Ognuna di esse può essere sintetizzata da uno slogan usato dal governo.
“Mandare in pensione prima i lavoratori crea posti di lavoro per i giovani”
Il governo vuole stravolgere l’attuale sistema pensionistico e sostituirlo con un altro battezzato “quota 100”, che abbassa la combinazione dei requisiti anagrafici e contributivi necessari a potersi congedare dal mercato del lavoro. Tale provvedimento è accompagnato – e la cosa non è indifferente – da una misura che introduce una tassazione con aliquota unica agevolata al 15% per i lavoratori cosiddetti “a partita IVA”. Tra le motivazioni dell’eliminazione della “Legge Fornero”, il governo ha addotto, oltre al “sollievo” per i lavoratori più anziani, l’incentivo al turnover generazionale, favorendo l’inserimento di lavoratori più giovani, più preparati per le nuove mansioni richieste dal mercato del lavoro, di modo che questi non rimangano inattivi proprio negli anni in cui potrebbero produrre di più o non siano costretti ad emigrare.
Ebbene questo ragionamento sembra elementare e di buon senso: “tolgo un lavoratore anziano e ne metto uno giovane”. In realtà questo risulta essere un primo drammatico bias della politica economica. Nessuno studio infatti riesce a provare una correlazione inversa tra età di pensionamento e disoccupazione giovanile (vedi ad es. la rassegna di test dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica). Detto altrimenti, non sono stati presentati dal governo studi scientifici capaci di dimostrare che togliendo dal mercato del lavoro un occupato anziano ne subentri automaticamente uno più giovane. Le cose anzi paiono andare al contrario.
Si immagini infatti un’azienda, che tenta di tenersi al passo con l’aggiornamento tecnologico rispetto ai concorrenti interni ed esteri. Tale azienda cercherà –in un periodo di accelerazione tecnologica come quello attuale – di riparametrare il rapporto capitale/lavoro aumentando il primo e se possibile diminuendo il secondo. Mandare in pensione un lavoratore espone l’impresa al dilemma tra assumere un altro lavoratore o sostituire la mansione manuale con una routine automatizzata, cioè incrementare la tecnologia per ridurre i costi e aumentare la produttività. La scelta più ovvia sarà tentare di non sostituire la forza lavoro.
Ciò contraddice la motivazione addotta dal governo a sostegno della manovra. A conferma di questa interpretazione si possono, tra le altre, ascoltare le dichiarazioni prodotte in diretta da Andrea Rossi (Presidente Giovani Confindustria) il 02/10/18 alla trasmissione Studio24.
La supposta necessità di sostituire un lavoratore anziano con uno giovane, per dare alle nuove generazioni la possibilità di inserirsi nel mondo produttivo, veicola una visione totalmente statica del mercato del lavoro: come se quest’ultimo fosse un’entità a perimetro immodificabile, e che per inserirvi qualcosa bisogni prima far uscire qualcos’altro. Una concezione mercantilista o meglio fisiocratica della ricchezza, per cui l’unico modo per acquisire una fetta di torta sia di toglierla agli altri.
I dati empirici tendono a sostenere il contrario: di solito più è alto il tasso di attività degli anziani più è bassa la disoccupazione giovanile. Questo perché nei paesi ad alto sviluppo e alta produttività non c’è in nessun modo una concorrenza tra generazioni sul mercato del lavoro. L’età di pensionamento in Germania è 65 anni anagrafici e 45 di contributi (fonte ADAPT) – contro i 41 previsti per la riforma attuale a regime – e la disoccupazione giovanile è attorno al 6,2% (fonte EUROSTAT).
Il nodo sta perciò nella produttività del lavoro, nella quantità di investimenti, nella forma del mercato del lavoro, nella efficienza della burocrazia (particolarmente la regolazione dei contenziosi) e nella convenienza (prodotta dalla tassazione) ad assumere o meno un lavoratore per ogni unità di capitale aggiuntivo.
Non bastasse questo, si rammenti che i lavoratori giovani guadagnano meno: in media 18.000€ l’anno (dichiara il direttore dell’INPS Boeri), mentre i lavoratori anziani hanno un assegno medio di 36.000. Per mantenere un nuovo pensionato servirebbero contributi pari quasi all’intera retribuzione di due nuovi lavoratori. Insostenibile. Infine, a questi argomenti già di per sé rilevanti si aggiunge la combinazione di queste misure previdenziali con l’estensione fino a 65mila euro dell’aliquota “flat” per le partite IVA.
In tal modo risulterà conveniente sia per le aziende, sia per i lavoratori, licenziare le figure professionali più costose e riassumerle fittiziamente con un contratto di prestazione come lavoratore autonomo, aggravando la diminuzione dei contributi previdenziali e del gettito fiscale garantiti da questa forma contrattuale.
Il ragionamento con cui si giustifica la “riforma” pensionistica è dunque empiricamente e logicamente infondato. Inoltre, sbilancia la spesa pubblica a favore degli ultrasessantenni e a scapito dei giovani. Un trend già consolidato in Italia e che andrebbe invertito: la spesa pensionistica è infatti già la quota parte più alta delle uscite statali, quattro volte maggiore della spesa per educazione ed istruzione.
Solo investendo sulla produttività del lavoro giovanile si potrebbe invece sostenere anche il mantenimento delle generazioni più anziane. Con l’evoluzione demografica attuale e un sistema previdenziale “a ripartizione”, in cui sono i lavoratori attivi a pagare le rendite pensionistiche, è impossibile avere dei pensionati che stanno a carico dei giovani per 25 anni in media. In Italia l’età media di pensionamento è già tra le più basse d’Europa a fronte di un’aspettativa di vita però più lunga.
La drammaticità di tutto il processo è aggravata dal fatto che l’aumento della spesa pensionistica avrà portata decennale (quindi strutturale) e sarà finanziata con l’emissione di nuovo debito e non con rimodulazione di spese già in essere. Il che apre ci porta a discutere la seconda illusione… (to be continued).
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